È di questi giorni la notizia della scoperta del primo autoritratto di Leonardo da Vinci su una maiolica. Lo storico dell’arte Marco Proietti dimostra invece che la prima autorappresentazione di Leonardo si trova a Firenze ed è precedente a quest’ultimo ritrovamento, in un opera che già il Vasari attribuiva al maestro.
È di questi giorni la notizia della “più antica opera pittorica di Leonardo da Vinci”, nella forma addirittura del “suo primo autoritratto” e per giunta con una “prima firma autografa” e data di esecuzione del 1471. Il tutto inerente ad una maiolica dall’immaginifico titolo “L’arcangelo Gabriele, pittura d’Eterna vernice” di 20 per 20 centimetri, dove compare una semplice testa di profilo con un’aureola e l’accenno di due ali che lo studioso Ernesto Solari identifica in un precocissimo autoritratto del Genio Universale nelle fattezze dell’Arcangelo Gabriele.
La maiolica ha attraversato cinque secoli nel passaggio tra i pochi illustri possessori e ci è giunta intatta con il suo tesoro di firma (da Vinci lionardo), di sigle (LDV ib) e un rebus di numeri (52, data di nascita di Leonardo, e 72, che rinvia a Gb-Gabriele). Nel completo vuoto d’immagini relative al maestro fino al suo ben noto autoritratto della biblioteca Reale di Torino 1515, che lo raffigura in tarda età, le acerbe fattezze di questo profilo arcaico costituirebbero un possibile primo ritratto del giovane artista all’età di 19 anni.
In questi ultimi decenni, la storiografia dell’arte si è già impegnata ad individuare probabili ritratti del giovanissimo apprendista che accostava diversi artisti e botteghe prima e dopo il suo contratto formale col Verrocchio nel 1469. È molto probabile che in quegli ambienti il prodigioso fanciullo abbia non solo imparato i rudimenti del mestiere, come tutti i grandi artisti dell’epoca, ma anche prestato la propria opera di collaborazione, lasciando traccia della sua originalità e ottenendo persino in contraccambio di autorappresentarsi.
Ma, in nessuno dei casi che citeremo, l’artista ha lasciato improbabili firme per esteso o sigle o numeri banalmente significativi di iniziali di nome e cognome, o addirittura della sua data di nascita, poiché i grandi maestri del Rinascimento, da Giorgione al Botticelli fino a Michelangelo, non erano alieni dall’indicare la propria presenza artistica nelle opere di loro esecuzione, ma celavano indizi della loro autografia in complesse sigle, fantasiosi giochi di parole in cifra, sorta di moderni rebus. Solitamente si trattava di “oggetti” rappresentati che rimandavano per le loro iniziali al nome o cognome dell’artist. Nel nostro caso: Li-lium, Lira, Libro, Lione o Leone per Lionardo o Leonardo; ciò che li-ga o le-ga, i lacci, o “vinci” che alludono al suo luogo di nascita (Vinci). L’importanza dell’universo nominalistico è testimoniata, oltre che da questi semplici e diffusissimi indicatori, anche dalla presenza di oggetti, animali, piante o materiali segnalati discretamente all’osservatore dall’indice delle dita che qualche personaggio impone alla nostra attenzione. In Leonardo alcune figure alludenti al proprio nome ricorrono sovente, assumendo un completo significato di emblema prendendo cosi il posto della firma che non compare in nessun caso. È questo il caso della funzione che il leone assume in tutti i suoi San Girolami, per non parlare della perduta Le-da col Cigno, dove questi animali assumono la cosiddetta funzione di “animali artisti”. A partire dagli anni di collaborazione col Verrocchio, 1470, Leonardo viene a identificarsi e ad essere identificato con Gabriele Arcangelo, come attestano I tre Arcangeli di Francesco Botticini, proprio di quegli anni, dove un giovane Leonardo è rappresentato nelle vesti di Gabriele seguendo una tradizione iconografica non ancora consolidata ma che riceverà nuovo impulso a Firenze seguendo le teorie angeliche diffuse da Matteo Palmieri dal giugno 1473 nell’opera Città di Vita. Il Botticini crea una correlazione gerarchica tra gli arcangeli e definisce gli indizi che portano all’identificazione tra l’arcangelo e il giovane Leonardo le cui iniziali LI sono suggerite dal Li-lium, dal rosso li-onino delle ali, dal li-no della veste; il cognome Vi-nci dal moto del vi-so di tre quarti (cosi simile a quello dell’angelo leonardesco nel Battesimo del Verrocchio) e nel colore della “toga” vi-rdis. Per di più il dito indice della mano sinistra, piegato, delinea una LV fusi in un unico segno da leggersi come la sigla leonardesca.
E proprio in quest’ambito temporale che viene a collocarsi la maiolica col presunto ritratto di Leonardo di profilo nelle vesti di un angelo che nessun attributo, ad esempio il giglio o il richiamo di indici puntati verso l’alto, ci può far ricondurre all’arcangelo Gabriele e al suo alias Leonardo, né tantomeno il puerile gioco delle lettere alfabetiche numerate. È nella precocissima esperienza pittorica di Leonardo fanciullo, nella sua partecipazione all’affresco della Natività del Chiostrino dei Voti dell’Annunziata 1460-62 di Alesso Baldovinetti, che troviamo la prima autorappresentazione del giovanissimo artista in uno degli angeli volanti, come ci attesta una serie di dati stilistici e tecnici in appoggio a numerose indicazioni verbali che riguardano il nome e il borgo di provenienza. Il Le-gno delle tavole della tettoia, l’e-dera aderente alla parete, la pianta di li-mone, le le-gature del bue e dell’asino richiamano il nome; la Vi-pera che si nasconde in una fenditura del bugnato, la Vi-rga, la Vi-a che serpeggia sulla pianura, i vinci o legamenti sulle corna del bue, un vi-so che occhieggia nella roccia sopra i pastori, composto di elementi naturale come fronde e cespugli in una sorta di ingenua sperimentazione infantile, tutti alludenti al toponimo Vinci. Tutto l’affresco, come ci suggerisce Vasari, fa intuire la presenza di Leonardo e già prefigura la sua unica capacità di analizzare e descrivere scientificamente paesaggi, rocce stratificate, vegetali, architettura, e persino il pigro fiume e il ponte prefigurano il modello per le successive repliche fiorentine fino alla Gioconda. Un ultimo richiamo agli interessi scientifico-naturalistici del talentuoso giovinetto ci è fornito dal muso del leone appena tratteggiato sullo sperone sotto il volto-roccia, quasi un sigillo autoreferenziale che riapparirà in un disegno del 1473 e nel Battesimo di Cristo del Verrocchio.
È nel più giovane degli angeli, quello sulla sinistra, un “putto di nove anni” che annuncia ai pastori, che si può identificare il piccolo Leonardo, nella sua attitudine irriverente, cosi diversa dalla rigida fissità degli altri angeli e soprattutto nell’emblematico divaricare a squadra delle due braccia, quello destro alzato al cielo e il sinistro teso orizzontalmente ad indicare i numerosi oggetti legati al gioco nominalistico, a formare una L rovesciata e inversa. Quest’angelo è il precursore dei numerosi angeli annuncianti ricorrenti nell’opera leonardesca, “sempre alla ricerca di verità da scoprire e rivelare, di scoperte da far conoscere e mettere in pratica, di precetti da impartire, di nuove verità da rivelare” (Guidoni). È nel cantiere del Baldovinetti, 1470-76, che il giovane artista apprenderà a sposare pericolosamente la tecnica a fresco con procedimenti misti, con prevalenza di colore ad olio ed altre sostanze poco resistenti al tempo che tanti danni procureranno al maturo Leonardo dalla Battaglia di Anghiari al Cenacolo di Santa Maria delle Grazie a Milano, nel testardo rifiuto di accettare i più sicuri procedimenti tradizionali, attratto da una rischiosa sperimentazione e dalle potenzialità di trasferire sull’affresco le sottigliezze e le sfumature della pittura ad olio a lui cosi congeniale. Si può facilmente immaginare come la rudimentale tecnica di pittura su piastrella in terracotta invetriata, di veloce esecuzione, che durante l’ultima cottura perdeva molte delle sfumature originali, fosse distante dai lunghi procedimenti pittorici ad olio, realizzati per accumulo progressivo, di cui lui era maestro. Il giovane e raffinato artista probabilmente prestava la sua opera nell’ambito di due grandi botteghe fiorentine, come una quindicina di studi preparatori ad opere di Verrocchio e Ghirlandaio ci attestano facendoci intuire persino una sua partecipazione diretta alla loro esecuzione complessiva. Questi suoi interventi sono costituiti da studi di panneggi su tela di lino preparata, come ci fa supporre una mostra a lui dedicata a Parigi su “Les études de drapperie” del 1989. Il lino materiale del tutto eccezionale rispetto al consueto supporto cartaceo per disegni di drappeggi, ed a lui caro anche per la consonanza nominalistica Li-no come Li-onardo, presupponeva una esecuzione qualitativamente superiore, da non affidarsi certo ad un mediocre apprendista, ma al titolare stesso della bottega o ad un giovane talentuoso come Leonardo che tentava in vario modo di essere ricordato, anche per l’uso del Li-no, nelle opere alle quali partecipava. L’interesse leonardesco per questo prezioso materiale accresce il dubbio che un materiale di supporto cosi povero come l’argilla possa averlo interessato nei suoi esperimenti pittorici. Messa quindi in dubbio la possibilità dell’utilizzo di un supporto così povero da parte di un artista che voleva imporsi in una Firenze di botteghe ben organizzate, dobbiamo prestare la nostra attenzione all’elemento più importante del cosiddetto ritratto in maiolica, costituito dal profilo dell’angelo che una precisa analisi stilistica ci fa decisamente escludere dall’autografia leonardesca per il suo arcaismo nel profilo da medaglia, più riconducibile a modelli pierfrancescani e pollaioleschi. Le sembianze del giovane Leonardo vanno semmai ricercate nella serie di tre autorappresentazioni che potrebbero ricondurci ai suoi tratti idealizzati nell’arco di tempo che intercorre tra i suoi 13 ed i 24 anni, poiché la moderna storiografia ha già da tempo individuato tre diverse figure a lui riconducibili in tre diversi opere del Verrocchio. Nel Tobiolo e l’Angelo (Londra, National Gallery), si può riconoscere nel Tobiolo fanciullo lo stesso Leonardo tra i dodici ed i tredici anni, il che ci permette di datare la preziosa tavola al 1464-65. L’identità di Leonardo è suggerita dai capelli fulvi, come la criniera di un leone e con un deciso moto del volto rivolto in pieno sole; il suo nome è suggerito nel gioco nominalistico dai molti le-gacci, delle vesti e delle calzature e dalla le-ttera arrotolata che stringe nella mano. La sua mano sarebbe riconoscibile in alcuni dettagli pittorici come il cagnolino ed il pesce e nei giochi topiarii del paesaggio. Nella Madonna col bambino e due angeli sempre a Londra, opera verrocchiesca di collaborazione col Perugino, Leonardo ragazzo è identificabile nell’Arcangelo Gabriele, per i suoi capelli color fulvi da leone e dal Li-lium naturalisticamente descritto che entrambi le mani indicano. La bellissima testa ruotata di tre quarti sembra in adorazione di un punto alto e lontano che, come per il Tobiolo, non può essere che il sole ed il suo volto imberbe e quasi femmineo lo fanno propendere verso i quindici e sedici anni datando la tavola al 1467-68. Il banale profilo della maiolica sarebbe successivo di soli quattro anni a questa compiutissima prova che avrebbe fatto sfigurare qualsiasi altro competitore e anticiperebbe di cinque anni il meraviglioso angelo nel Battesimo di Cristo del Verrocchio che già dal Vasari era attribuito a Leonardo e la cui fisionomia rappresentava idealmente il giovane maestro ad un’età apparente tra i 16 ed i 17 anni ma che in realtà ne aveva 24 visto che la tavola è datata al 1476. Ancora una volta la folta e lunga capigliatura che ha sempre l’aspetto di una criniera le-onina dorata dai riflessi del sole connota l’artista oramai diventato ufficialmente maestro dal 1472 che offre in questa tavola una prova cosi alta delle sue capacità creative e di rifinitura ad olio di alcune parti a tempera da convincere Andrea Verrocchio “geloso del suo allievo troppo bravo” (Vasari) ad abbandonare definitivamente la pittura per dedicarsi all’attività scultorea. L’altro angelo, più giovane, tradizionalmente attribuito al Verrocchio ma probabilmente di mano leonardesca, guarda in adorazione il suo compagno, disinteressandosi alla scena sacra in una sorta di “amore tra angeli” che verosimilmente sublima una amore fra giovani. È di quegli anni infatti l’accusa di sodomia imputata al ventiquattrenne Leonardo, che fortunosamente non fu travolto dallo scandalo e che qui, nelle sembianze dell’angelo che distoglie lo sguardo dal compagno, sembra chiedere aiuto al Signore. A questo fatto di scottante attualità sembrano far riferimento le vistosissime pietre in primo piano davanti ai due giovani, da interpretarsi non più come una particolarità geologica ma come le “scandole” di un tetto che stanno quindi a dichiarare che in questa parte dell’opera è raffigurato uno “scandalo” di pubblica notorietà. A suggello di tutto il suo intervento appare un’elegante V leonardesca, tracciata su un ciottolo rotondeggiante in primo piano che, insieme alle nominalistiche Li o Le, sono state esclusivamente scelte dal pittore per auto segnalarsi e sole ci permettono di accedere alle più riposte pieghe delle sua personalità.
Marco Proietti